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25.4.12

25/4

partigiani


Sgorga il vino rosso sangue in questo giorno di memoria. Sono brindisi a un ricordo che di sangue è pieno, sangue sempre uguale, a macchiar divise o stracci sempre dello stesso colore. Colore della lotta.

E qui, ora, in un'Italia precaria in tutto, prende la voglia di una guerra da combattere, un guerra vera, dietro una trincea dove sei certo quale sia la tua parte, dove sapere che rabbia e lotta sono sacrosante, oggettive, giuste. La voglia di sentir la mano tremare mentre stringe il calcio del fucile che fissa ciclopico un corpo di uomo. La voglia di un grilletto da sfiorare.

Ma sono solo considerazioni. Pensieri di battaglia di chi la guerra non l'ha mai vista davvero.

Perché dietro ai memoriali e le lapidi la trama è sempre la stessa: un intrico di corpi, sangue e merda; uomini e ragazzini feriti tra il gelo delle montagne, esecuzioni sommarie e proiettili sparati tra monti da cui non si vede casa. Diritti ancora in divenire, cibo di fortuna, precarietà dell'anima. Occhi vitrei che ti fisseranno per sempre. Urla che durano una vita. Paura.

E allora la fortuna è che non ci sia una guerra da combattere, bersagli da mirare, proiettili in canna, fratelli trucidati faccia al muro. La fortuna è che ci sia chi quella guerra l'ha già fatta, tributandole, se non la vita, la gioventù.
A risparmiarci di dover essere noi a stringere quel fucile, a rabbrividire nella neve, a dover scegliere chi ammazzare.

Ma se combattere bisogna, che allora la lotta sia nella la memoria.
Che si riesca a ricordare, sempre, da che parte stare.
Perché non ci sia, mai più, bisogno di eroi.


«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.»

(C.Pavese, La casa in collina, 1949)

24.4.12

Cose semplici e banali

A volte basta poco, uno sguardo un po’ più profondo sul quotidiano che ci circonda, per capire come possa essere così difficile cambiare le cose. E ti viene voglia di abbandonarlo sto paese, di lasciarlo marcire nella meschinità del suo egoismo, dei suoi cortili recintati fuori dai quali è meglio non guardare, non domandare, che se poi ti capita di veder che c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto, lì dopo è un casino, non ci puoi più restare dietro la finestra. Poi viene l’ipocrisia: la vedi, palpabile, in chissà quante case, strade, piazze. Senza bisogno di altari e contro altari, la vedi nelle persone. Ti basta girare per strada, nelle persone. Nessuno è più in grado di rinunciare a nulla: pur di riempire il proprio sacco, si accetta di lasciare vuoto quello del vicino. E la scusa è sempre quella “ma tanto fanno tutti così”. E perché non ci provi tu a fare diverso? Perché se tutti sbagliano e ne sei consapevole, non inizi tu a non sbagliare? L’Italia è un paese in cui l’individualismo è legittimato, auspicabile (Diffida dagli altri, se non vuoi essere fregato). E allora ti chiedi davvero che cosa ti fa stare ancora qui, quando potresti andartene al nord, in paesi dove la gente è felice di pagare le tasse per avere servizi che funzionano, e anche bene. Te li immagini sorridenti, gli svedesi, tutti in fila alle poste a versare il proprio contributo allo stato o a ritirare le pensioni, senza cercare di passare avanti alla fila, ognuno felice di rispettare il proprio turno. Poi ti fermi, guardi il calendario. Pensi che domani è il 25 aprile. Sorridi a tua volta e capisci immediatamente perché sei ancora qui, perché l’Italia è un paese in cui vale la pena restare.